La “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”, il 4 Novembre, anche quest’anno è annunciata da squilli di tromba e grancassa, per farne una ennesima occasione di retorica patriottarda e di sciovinismo guerrafondaio. Sempre più lontano dalla propaganda renziana, che vuole rappresentare l’Italia protagonista dell’azione umanitaria negli scenari internazionali, primattore della cooperazione internazionale e artefice di meritorie iniziative solidali, per promuovere “l’inclusione attraverso la cultura”, il nostro Paese è, nella realtà delle cose, un Paese in guerra, sempre più schierato in prima linea negli scenari di crisi e di conflitto.
Lo schieramento militare italiano è impressionante: secondo l’ultimo decreto missioni approvato (16 Maggio 2016, n. 67), l’Italia è presente con circa 14.000 militari in una dozzina di scenari diversi, dentro e fuori i confini nazionali. All’interno del Paese, oltre 7.000 militari sono impegnati nella cosiddetta missione “Strade Sicure”, un presidio militare di luoghi, strade e piazze delle nostre città, che si traduce in una inquietante militarizzazione dei nostri territori. Fuori confine, altri 7.000 militari sono impegnati nelle variamente denominate “missioni internazionali”, con una presenza imponente soprattutto in Libano (1.100 unità), Afghanistan (quasi 1.000 unità) e Kosovo (oltre 500 unità), senza contare l’impegno militare nel Mediterraneo, dove le due missioni «EUNAVFORMED» e «Mare Sicuro» impegnano oltre 1.500 unità.
Uno schieramento che, in diversi luoghi “caldi”, si traduce in un vero e proprio impegno di guerra e porta l’Italia in prima linea nei combattimenti: non solo in Afghanistan, ma anche in Libia, con oltre 300 militari impegnati in una “missione”, ripetutamente spacciata per “umanitaria”, ma che è, in realtà, vera e propria azione di guerra, con 200 paracadutisti della Folgore, una portaerei, uno stormo di cacciabombardieri, diversi droni e tre basi militari impegnate (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella); così come in Iraq e Siria dove l’Italia schiera, complessivamente, almeno 1.400 militari, in Iraq con un proprio contingente (500 uomini) a difesa della Diga di Mosul, nell’operazione strategica «Prima Parthica» di addestramento dell’esercito iracheno e nell’operazione «Centuria» delle forze speciali (100 uomini), in sostegno alle forze armate irachene.
Si tratta di un peso inaccettabile, utile solo a sostenere il ruolo imperialistico dell’Italia negli scenari del Mediterraneo, del Nord Africa e del Vicino Oriente e a tutelare gli interessi delle grandi multinazionali di casa nostra, tra le quali l’ENI con i suoi interessi petroliferi in Libia; la Finmeccanica e il suo impegno nella produzione industriale militare; la Beretta, tra le principali produttrici mondiali di armi cosiddette “leggere” ma, non diversamente dalle altre, letali; la Trevi, oggi impegnata nei lavori della Diga di Mosul, in Iraq; e, non ultima, la Pizzarotti, le cui costruzioni fanno bella mostra di sé in Libia, in Kuwait e in Arabia Saudita.
Non solo, dunque, «il capitalismo porta la guerra, come le nuvole portano la pioggia»; ma oggi, in tempi di crisi e di impoverimento diffuso delle masse popolari, dei lavoratori e delle lavoratrici del nostro Paese, il militarismo italiano non fa che sottrarre soldi, risorse, investimenti alla spesa veramente necessaria, la spesa sociale, per la scuola, l’università, la salute, il lavoro, la protezione dell’ambiente, la tutela del territorio …
Secondo il recente Documento Programmatico della Difesa (2016-2018), la spesa militare italiana, senza considerare le spese sostenute per l’Arma dei Carabinieri, e senza considerare neanche le spese per i programmi di sviluppo legati al settore della Difesa, ammonta a quasi 20 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi per le missioni militari e 2,5 miliardi per i programmi di riarmo: l’Italia non solo è impegnata nella guerra per i propri interessi, ma è altrettanto impegnata nel riarmo, nella produzione e nella tecnologia militare.
È una cifra impressionante, pari al volume di una legge finanziaria, con la quale sarebbe possibile realizzare ben altri investimenti, pubblici e sociali. Non si tratta di un modo di dire, ma di cifre concrete: l’Italia è attualmente impegnata, per oltre 4,6 miliardi, nell’acquisto di nuovi armamenti tra cui i cacciabombardieri Euro Fighter (677 milioni), i famigerati F-35 (630 milioni), la nuova portaerei Trieste e le nuove fregate Fremm (389 milioni), gli elicotteri Nh-90 (289 milioni), i nuovi carri Freccia (170 milioni), i nuovi elicotteri Ch-47 (155 milioni), i nuovi caccia M-346 (125 milioni), perfino i sommergibili U-212 (113 milioni).
Un solo esempio: la Finanziaria 2016 e quella, in programma, per il 2017, destinano alla lotta alla povertà non più di 1,6 miliardi, quasi 3 volte meno di quello che si spende solo per nuove armi, a fronte di una situazione drammatica della povertà in Italia, che vede oltre 4,6 milioni di persone, quasi l’8% dei residenti nel nostro Paese, in condizione di povertà assoluta, vale a dire impossibilitati a fare fronte alle spese fondamentali.
Povertà, precarietà e disoccupazione, dentro i confini; militarismo, guerre ed aggressioni, oltreconfine: è questo il panorama che sta disegnando, in perfetta continuità con i suoi predecessori, il governo italiano. Lottare per i diritti, per la giustizia sociale, contro la guerra, è sempre più urgente e necessario. Nella giornata del 4 Novembre, cosiddetta “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”, non abbiamo davvero nulla da festeggiare.
RETE CONTRO LA GUERRA E IL MILITARISMO
Napoli 04/11/16 https://www.facebook.com/retecontroguerramilitarismo.na/
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