Oggigiorno un numero sempre maggiore di paesi acquista e utilizza droni armati per condurre omicidi mirati. I droni sono utilizzati nel contesto della lotta al terrorismo, per condurre operazioni letali contro sospetti terroristi nei moderni conflitti “asimmetrici”.
Il problema è che queste operazioni hanno un grosso impatto sui civili che vivono nei luoghi in cui gli omicidi mirati hanno luogo: tramite i “drone strikes” molti civili rimangono uccisi o feriti, e in tal modo vengono violati i loro diritti fondamentali, specialmente il diritto alla vita e i principi base del diritto internazionale umanitario.
L’utilizzo dei droni armati per compiere i cosiddetti “targeted killings” presenta degli aspetti legali ulteriori rispetto alle comuni armi utilizzate nelle classiche guerre e conflitti armati. In particolare ci si chiede se l’utilizzo dei droni rispetti le norme di diritto internazionale umanitario: rispetta i principi di proporzionalità, distinzione, necessità e precauzione a cui attenersi in un conflitto armato? Come adattare tali concetti ai moderni conflitti “asimmetrici”? È quindi importante sottolineare che i targeted killings non sono da considerarsi illegali in toto poiché, se condotti durante un conflitto armato, possono essere giustificati dal diritto internazionale umanitario che autorizza a colpire combattenti e ‘military objects’ purché tali azioni siano realizzate durante un conflitto.
Il punto è che la maggior parte degli omicidi mirati avviene in paesi dove non vi è alcun conflitto armato in corso, e al di fuori di un conflitto armato le regole di diritto internazionale umanitario non si applicano. Si applicano invece le regole di “international human rights law” le quali sono molto più stringenti e permettono di compiere operazioni letali solo in caso di “absolute necessity” la quale si contrappone alla “military necessity” propria di un conflitto armato.
L’opinione pubblica a riguardo è molto scarsa in Italia nonostante sia palese il coinvolgimento dello Stato italiano nelle operazioni antiterrorismo statunitensi e nonostante proprio un drone americano abbia ucciso un cittadino italiano in Pakistan, Giovanni Lo Porto.
Giovanni Lo Porto era un operatore umanitario rapito in Pakistan nel 2012 da un gruppo terrorista e ucciso poi durante un’operazione antiterrorismo degli Stati Uniti tramite un drone armato. Nella stessa operazione anche un cittadino americano è rimasto ucciso, il dottor Warren Werstein. Gli Stati Uniti, in particolare l’ex Presidente Barack Obama, si sono scusati pubblicamente per l’accaduto e hanno riconosciuto ad entrambe le famiglie un “condolence payment”. Un pagamento sotto forma di cordoglio è diverso da un vero risarcimento, poiché evitando di parlare di risarcimento gli Stati Uniti evitano di assumersi la responsabilità legale per l’accaduto.
Attorno alla vicenda che ha lasciato ucciso Lo Porto e attorno a tutti gli altri attacchi che avvengono puntualmente in paesi come Pakistan, Yemen, Libia, Somalia, Afghanistan vi è poca chiarezza, e vi è poca chiarezza anche per quanto riguarda la policy utilizzata dagli Stati Uniti nell’effettuare le operazioni antiterrorismo che terminano spesso con l’uccisione di numerosi civili estranei a qualsiasi forma di organizzazione terroristica.
Per quanto riguarda il coinvolgimento dell’Italia nelle operazioni antiterrorismo statunitensi, a febbraio 2016 il Wall Street Journal ha reso noto che il governo italiano ha consentito la presenza di droni armati statunitensi nella base militare di Sigonella in Sicilia. Secondo quanto riportato dalle fonti giornalistiche l’accordo fra governo italiano e USA prevede che suddetti droni possano essere utilizzati solo in seguito ad autorizzazioni rilasciate caso per caso e solo in funzione “difensiva” delle Forze Speciali statunitensi in Nord Africa.
In seguito alle rivelazioni del WSJ l’ex Primo Ministro Matteo Renzi, l’allora Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni e il Ministro della Difesa Roberta Pinotti hanno rilasciato numerose dichiarazioni in cui confermavano la funzione difensiva a cui sono destinati suddetti droni armati e ribadivano che eventuali
operazioni potranno iniziare ad avere luogo solo in seguito a specifiche autorizzazioni date caso per caso dal governo stesso. Il Ministro della Difesa Pinotti specificava inoltre che fino a quel momento i droni non avevano ancora mai agito in operazioni armate e che non c’era stata alcuna richiesta in merito da parte degli Stati Uniti.
Peraltro vi sono fonti che parlano dello stazionamento e utilizzo di droni armati in partenza dalla base siciliana da ben prima del 2016: pare che già nel 2013 vi fossero sei Predator, droni da ricognizione che possono essere armati, temporaneamente basati a Sigonella con lo scopo di permettere alle autorità americane il dispiegamento di questi dispositivi se si fossero presentate delle situazioni di crisi nell’area nordafricana.
In ogni caso gli accordi fra Stati Uniti e Italia in relazione alla presenza di droni armati a Sigonella non sono mai stati resi pubblici, dunque possiamo solo basarci su fonti giornalistiche.
Vi sono elementi sufficienti per ritenere che tali accordi e autorizzazioni, che permettono l’utilizzo di droni armati da parte degli Stati Uniti, violino i diritti umani e il diritto internazionale umanitario poiché seppur in teoria indirizzati contro potenziali terroristi, hanno causato e continuano a causare la morte di numerosi civili.
Il coinvolgimento dell’Italia nella “war on terror” statunitense non si ferma qua. Infatti nella base militare di Sigonella è in corso la costruzione dell’UAS SATCOM Relay Pads and Facility, un sistema di telecomunicazione satellitare che ha la stessa funzione della base militare di Ramstein in Germania ovvero quella di passaggio di dati dal centro operazionale dei droni al drone stesso. Senza la presenza di basi come Ramstein e di questa futura base a Sigonella i “drone strikes” non sarebbero possibili. La costruzione della base sarà terminata a febbraio 2018, e sarà utilizzata presumibilmente per sferrare attacchi in Libia e in altri paesi del Nord Africa.
A differenza che in Italia, in Germania vi è una grande consapevolezza nell’opinione pubblica poiché il ruolo “letale” di Ramstein è stato confermato e reso pubblico prima da alcuni whistleblowers e poi da varie testate giornalistiche.
La sensibilizzazione dell’opinione pubblica è stata di grande aiuto anche per portare un caso davanti ai Tribunali Amministrativi tedeschi: ad agosto del 2012 due membri della famiglia Ali Jaber, cittadini yemeniti senza alcun collegamento con gruppi terroristici, sono rimasti uccisi in un “drone strike” in Yemen. La base militare di Ramstein ha giocato un ruolo cruciale in questo strike che ha ucciso parte della famiglia Ali Jaber. La Germania, consentendo l’utilizzo della base Ramstein per tali operazioni, viola i suoi obblighi costituzionali e di protezione dei diritti umani e si rende complice di possibili crimini commessi dagli Stati Uniti nei confronti di civili “vittime collaterali”.
A ottobre 2014 tre membri della famiglia Ali Jaber, rappresentati dallo European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR) con sede a Berlino, hanno intentato un’azione nei confronti del governo tedesco davanti alla Corte amministrativa di Colonia sulla base dell’articolo 2 della Costituzione tedesca che sancisce la protezione del diritto alla vita. È stato chiesto che la Germania non permetta l’uso di Ramstein per futuri attacchi in quella zona dello Yemen, perché ciò potrebbe causare la morte di altri civili e in particolare dei ricorrenti che, seppur stranieri, hanno diritto ad essere tutelati dalla Germania poiché la loro sicurezza è messa a repentaglio da azioni consentite e quindi in parte compiute dalle autorità tedesche. La Corte in primo grado ha confermato il ruolo di Ramstein ma ha deciso che la Germania non ha alcun obbligo nel prevenire queste azioni. Il caso è al momento pendente in appello e la Corte ha confermato la legittimazione delle vittime Yemenite a stare in giudizio.
L’aspetto più importante è che grazie all’azione intentata dalla famiglia Ali Jaber il governo tedesco ha recentemente confermato pubblicamente il ruolo cruciale di Ramstein nelle operazioni antiterrorismo statunitensi; operazioni che spesso presentano aspetti poco “legali” e contorni poco chiari. A.V. Legal trainee presso ECCHR
Per un ulteriore approfondimento, vedere l’articolo di Chantal Meloni: https://www.rivistailmulino.it/item/2804 Omicidi poco mirati
L’amministrazione Obama, la pratica dei targeted killings e Giovanni Lo Porto
05 maggio 2015
L’uccisione del cooperante italiano Giovanni Lo Porto, vittima di un attacco “mirato” condotto dai droni americani al confine tra Pakistan e Afghanistan, ci avvicina dolorosamente a una realtà, quella dei cosiddetti targeted killings, rimasta finora troppo nell’ombra. L’uccisione di Lo Porto rappresenta un caso eccezionale che merita di essere indagato a fondo: non solo si tratta di un cittadino italiano, uno dei 38 occidentali uccisi finora tramite esecuzioni extragiudiziali,ma soprattutto si tratta del primo tra questi “occidentali” ucciso senz’altro per errore dai droni americani.
Poco si sa di questa pratica che ha soppiantato la cattura come pilastro della strategia statunitense antiterrorismo causando negli ultimi anni migliaia di vittime, tra cui molte centinaia di civili innocenti.
Grazie anche all’impiego dei droni – che hanno reso tali esecuzioni più economiche, meno rischiose (per le forze armate del Paese che lancia l’operazione) e (teoricamente) più precise – il ricorso alla pratica dei targeted killings si è impennato: solo in Pakistan i dati indicano che l’amministrazione Obama ha lanciato circa nove volte più attacchi di quanti ne avesse compiuti l’amministrazione Bush durante tutto il suo mandato e in meno anni (364 su 415 attacchi).
I droni hanno preso il posto di Abu Ghraib e di Guantanamo come simboli globali di questa “guerra al terrorismo” in costante espansione. Ma, sebbene l’opposizione a tale pratica sia in aumento, purtroppo non è ancora efficace come quella contro la tortura.Dal 2004, secondo le stime più attendibili, dalle 4.000 alle 5.500 persone sarebbero state uccise in attacchi condotti dai droni americani in Yemen, Pakistan e Somalia, Paesi con cui gli Stati Uniti non sono formalmente in guerra, senza contare gli attacchi condotti in Afghanistan e Iraq, con cui invece erano in guerra.
I numeri – imprecisi per mancanza di fonti ufficiali – sono enormi; le stime dei civili uccisi sono incerte ma proprio per questo estremamente preoccupanti. Ed è l’assoluta mancanza di trasparenza da parte dei governi, in particolare di quello americano, a preoccupare sopra ogni cosa.
Come ha fatto osservare Philip Alston, l’ex Special Rapporteur incaricato dall’Onu, gli Stati Uniti finora si sono rifiutati di specificare quali siano le giustificazioni legali per la loro politica di omicidi mirati. Ancora peggio, si sono rifiutati di comunicare ufficialmente chi sia stato ucciso, per quali ragioni e con quali “effetti collaterali”. I singoli individui sono posti sulla cosiddetta Kill List direttamente su decisione del presidente. Obama approva la lista di coloro che sono destinati a essere uccisi, spesso mediante operazioni compiute tramite droni in Paesi terzi e al di fuori di un conflitto armato. Le informazioni sulla Kill list non sono date ufficialmente dall’amministrazione statunitense e sono pertanto limitate ai report dei media, che a loro volta si basano su indiscrezioni riferite da ufficiali americani, pakistani, yemeniti, o altri soggetti “bene informati”.
In verità non si sa neppure chi sia stato ucciso. La mancanza di trasparenza da parte dei governi è totale: secondo i recenti dati dell’organizzazione inglese Reprieve, alcuni individui inclusi nella Kill list sarebbero “morti” fino a sette volte. Reprieve ha identificato 41 casi di persone destinate a essere uccise mediante un’operazione di targeted killing più di tre volte prima di essere davvero uccise. Viene dunque da chiedersi chi sia stato ucciso al loro posto. Nella maggior parte dei casi la domanda è destinata purtroppo a rimanere senza risposta, poiché la stragrande maggioranza delle vittime rimane senza nome.
La stessa fonte rivela che in totale ben 1.147 persone sarebbero state uccise nel tentativo di eliminare questi 41 obiettivi. Il che evidentemente solleva pesanti dubbi rispetto alla precisione dell’intelligence alla base della decisione di procedere con un attacco letale mediante i droni.
Anche in occasione dell’uccisione del cooperante italiano Giovanni Lo Porto e del suo collega americano, il portavoce della Casa Bianca ha dichiarato che gli Stati Uniti “non avevano alcuna ragione per credere che gli ostaggi fossero presenti” nel luogo dell’attacco.
Come ha ricordato il “Washington Post”, Lo Porto non è certo la prima vittima innocente degli attacchi dei droni americani e l’amministrazione Obama ne è perfettamente al corrente. Nel caso in questione, grazie al passaporto della vittima, il governo americano ha per lo meno dovuto ammettere l’errore, sebbene con un ritardo inaccettabile: ci sono voluti oltre tre mesi per informare il governo che un cittadino italiano era rimasto vittima (collaterale?) di un attacco compiuto dai droni. Come ha riferito il ministro Gentiloni, nella tarda serata del 22 aprile scorso, il presidente Obama avrebbe informato il premier Renzi “della morte di Giovanni Lo Porto e dell’altro ostaggio americano in un bombardamento effettuato a metà gennaio con velivoli a pilotaggio remoto. Tale informazione è stata fornita appena iniziate le verifiche condotte da parte statunitense. Verifiche che si sono protratte per tre mesi per la particolarissima natura del contesto”.
Giovanni Lo Porto è solo un deprecabile effetto collaterale? In realtà potrebbe essere l’effetto collaterale che mette in crisi il sistema, se solo il nostro governo decidesse di reagire in modo appropriato. In questo senso l’Italia si trova ad avere una grande responsabilità, avendo in mano l’opportunità di pretendere chiarezza a nome delle vittime. Un’opportunità preclusa invece alla stragrande maggioranza delle vittime dei droni, innocenti e anonime, destinate a rimanere tali anche a causa della debolezza politica dei loro governi.
Per quanto benvenute, le parole di rammarico pronunciate dal presidente Obama, che si è assunto pubblicamente la responsabilità dell’accaduto, non sono sufficienti. Servono conseguenze. Serve trasparenza. Serve un cambio di rotta. A cominciare, come richiesto dal Parlamento europeo, dall’interruzione della complicità – a livello politico, militare e di intelligence – dei governi europei a questa pratica illegale: è di questi giorni la notizia che le operazioni dei droni americani sono rese possibili grazie a informazioni satellitari che provengono dalla base di Ramstein in Germania.
L’autrice ha scritto di questi temi sul “Mulino” n. 5/13, pp. 852-860: Fare la guerra con omicidi mirati tra questioni morali e aspetti giuridici
Diffusione a cura del Comitato NoMuos/NoSigonella durante il seminario a Niscemi del 23/4/2017
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