Armi da guerra. I piloti dell’Aeronautica militare italiana hanno superato le 2 mila ore di volo nell’addestramento con gli F-35A. Ogni ora costa al Paese 40 mila euro, per un totale di circa 80 milioni
I piloti dell’Aeronautica militare italiana hanno superato le 2000 ore di volo nell’addestramento con gli F-35A presso il Pilot Training Center (PTC) di Luke Air Force Base in Arizona.
Il colonnello Daniele Mastroberti, comandante della Rappresentanza Militare Italiana di Eglin in Florida (da cui dipende il distaccamento in Arizona) ha dichiarato che “le 2.000 ore di volo sono un traguardo importante a testimonianza di come le sinergie in atto fra la componente manutentiva statunitense e la Sezione Tecnica di Luke siano una realtà solida e ben rodata, che permette di mantenere alti livelli di efficienza e disponibilità dei velivoli, garantendo significativi ritorni addestrativi ed operativi”.
Considerato che un’ora di volo di un F-35 vale circa 40.000 euro, il “traguardo” di cui parla il colonnello Mastroberti ci è costato ottanta milioni di euro.
Ma le intense attività addestrative ovviamente non si fermeranno qui. Il centro di addestramento di Luke è infatti una struttura partecipata a livello multinazionale con personale e mezzi dei Paesi partner del programma F-35 che contribuiscono in solido alla gestione congiunta delle varie attività.
L’ennesimo buco nero che inghiotte risorse difficili da quantificare con esattezza ma di certo ingenti e considerate “irrinunciabili” da questo governo e da tutti quelli che lo hanno preceduto.
Qui infatti si stanno addestrando anche i piloti della Marina militare con gli F-35B a decollo corto che verranno prossimamente imbarcati dalla portaerei Cavour. Questo vascello, a sua volta, divora duecentomila euro al giorno nel suo “irrinunciabile” navigare mentre ne assorbe comunque centomila quando è fermo nel porto.
L’ottusità della belligeranza che viene rilanciata dal governo fa il paio con la scandalosa attitudine a sostenere ed autorizzare il lucroso trasferimento di armi e sistemi d’arma e Paesi e regimi criminali (Turchia, Egitto, Arabia Saudita) o a Paesi come gli Stati Uniti che sono il motore della corsa agli armamenti globale. Questo commercio avviene sia attraverso elusive triangolazioni rese possibili dalla dimensione multinazionale della “nostra” Leonardo sia attraverso falle nella stessa legge 185/90 che andrebbero riviste.
La politica governativa e d’opposizione, trasversalmente, fa cinicamente spallucce perché, si dice, Leonardo è un’industria strategica per il Paese.
Ma questa è una frottola clamorosa come quella che vorrebbe far passare i bombardamenti (o i blocchi economici) per dei veicoli umanitari di “democrazia” e “stabilizzazione”.
Il fatturato di Leonardo valeva 12,2 miliardi nel 2018 ma di questi solo il 15% veniva prodotto in Italia. Tutto il resto è stato generato all’estero (principalmente Stati uniti e Regno unito) in impianti acquisiti e direttamente controllati dall’azienda. Se si mettono in fila i numeri appare chiaro come nel 2018 il fatturato di Leonardo in Italia valesse poco più di 1,8 miliardi di euro corrispondenti allo 0,1% del Pil che di miliardi ne valeva 1753,9.
Questa multinazionale italiana non produce quindi un granché in termini di ricchezza generale nel nostro Paese ma ne diventa comunque, a detta del suo Amministratore delegato Profumo, “strumento della politica internazionale”.
Aprire un dibattito serio e conseguente, senza censure o timori, sulla revisione generale di tutto il comparto Difesa, sul concetto stesso di Difesa ed “interesse nazionale” è un imperativo che non può essere eluso. Perché oggi i venti di guerra, come dopo l’89, non si sono affievoliti ma stanno soffiando più forti che mai.
Tratto da Il Manifesto
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