C’è una foto che descrive bene la sporca guerra che l’Europa ha scatenato nel Mediterraneo contro decine di migliaia di rifugiati in fuga da altre guerre guerreggiate in Africa e Medio oriente. L’ha scattata il fotoreporter Enrico Di Giacomo nel porto di Messina il 22 settembre 2015. Sulla nave della guardia costiera britannica “Protector”, missione Triton di Frontex, due marines della Royal Navy, il volto occultato da maschere anti-epidemia ed occhialoni neri, indossano tute bianche contro le contaminazioni da guerra nucleare, batteriologica e chimica NBC. Pistole ai fianchi, imbracciano, entrambi, fucili mitragliatori. Freddi, terribili, anonimi cani da guardia di un gruppo di giovani migranti subsahariani seduti stretti, uno accanto all’altro. Volti stanchi, tirati. Solo un senso d’incertezza generale per quello che adesso potrà accadere. La precarietà di vite sospese, l’assenza di empatia e di ogni forma di comunicazione con l’altro, il marine senza volto, l’invisibile armato. Immagini identiche ai selfie nelle prigioni-lager per presunti “terroristi” in Iraq o Afghanistan o nelle navi-prigioni per i “pirati” del Corno d’Africa e del Golfo di Guinea. A bordo della “Protector”, quel giorno, c’erano però 122 persone soccorse su un gommone alla deriva delle coste libiche, tra essi anche tre giovani donne in avanzato stato di gravidanza e cinque bambini. Moderni criminali contro cui spianare le armi, clandestini – terroristi – pirati –scafisti – schiavi, bottini della guerra globale. Non persone da recludere, deportare, annientare.
L’Europa fortezza dei diritti violati
La stazione di Budapest come Auschwitz, i treni dei rifugiati bloccati, sequestrati e piombati dai poliziotti e dall’esercito in tenuta antisommossa. Un nuovo filo spinato costato 21 milioni di euro, lungo 175 km e alto 4 metri, al confine con la Serbia, protetto da tank, cingolati, carri armati e dalle truppe d’élite addestrate per i conflitti Nato del Terzo millennio. La costruzione di un altro muro d’acciaio è stato annunciato dal primo ministro ungherese Viktor Orban, stavolta al confine con la Romania, “contro l’immigrazione di massa dal Medio Oriente che rappresenta una minaccia alle radici cristiane del Vecchio continente”.
Chi fugge attraverso i Balcani dagli inferni di guerra mediorientali e africani non deve arrivare in Austria o in Germania. Così, altri treni sono stati bloccati dalle forze armate della Repubblica Ceca, mentre gli avambracci dei profughi, bambini compresi, sono stati marchiati con numeri indelebili. Le autorità di Praga hanno ordinato il trasferimento di 2.600 militari ai valichi di frontiera sud-orientali oltre ai 1.500 schierati in estate. Anche Vienna ha deciso di affidare all’esercito il controllo delle frontiere con Italia e Ungheria, mentre il 20 ottobre il parlamento sloveno ha approvato una legge che dà poteri straordinari alle forze armate – per tre mesi, rinnovabili – per la gestione dell’emergenza rifugiati, compresa la possibilità di “limitare temporaneamente” la libertà di movimento ai confini. Qualche giorno dopo, il governo di Lubiana ha ordinato il dispiegamento dei carri armati sul valico doganale di Harmica, al confine con la Croazia. Anche in Macedonia è stato decretato lo stato d’emergenza: agenti di polizia ed esercito sono autorizzati a utilizzare armi pesanti per disperdere i migranti ed ogni straniero sospettato di essere entrato illegalmente nel paese può essere arrestato o deportato. Pugno di ferro anche in Bulgaria, dove il 15 ottobre le Guardie di frontiera hanno sparato contro un gruppo di rifugiati, uccidendo un cittadino afgano. I cingolati dell’esercito sono stati schierati ai valichi con Macedonia, Grecia e Turchia, e altri muri elettronici e barriere di filo spinato sono stati innalzati in tempi record a presidio dell’Europa lager-fortezza.
Cariche, idranti, pallottole di gomma e gas per i migranti che tentano di attraversare il Canale della Manica violando le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, dove dal 2005 Madrid ha speso più di 72 milioni di euro in sofisticati sistemi elettronici d’allarme. Manganelli e idranti anche per i disobbedienti a Ventimiglia, per i richiedenti asilo reclusi nei centri di Berlino, Parigi e del sud Italia e per migliaia di rifugiati approdati nell’isola greca di Kos o nelle coste meridionali della Turchia. Il mare Egeo è divenuto teatro di spericolati inseguimenti, speronamenti e abbordaggi delle imbarcazioni di migranti da parte di unità veloci della marina militare ellenica e turca e perfino di misteriosi commandos di mercenari e/o paramilitari in tuta mimetica e superarmati.
Alla guerra con Sophia
L’Unione europea conferma sempre di più il suo fallimento politico-istituzionale ma condivide unanimemente le pratiche di guerra xenofoba-razzista, respingimenti e reclusioni. Le cancellerie sono divise su tutto, ma c’è un accordo generale sui tagli alla spesa sociale e sulla necessità di rafforzare l’offensiva militare contro il flusso di migranti. A partire da quest’estate, decine di unità navali, aerei da guerra, elicotteri, velivoli senza pilota pattugliano le acque del Mediterraneo con l’obiettivo di proiettare ancora più a sud le frontiere dell’Unione. Per poi occupare militarmente le città costiere di Libia, Tunisia ed Algeria e trasferire in Africa centri d’identificazione e “prima accoglienza” e strutture detentive per rifugiati e richiedenti asilo.
L’urgenza e la necessità di creare una missione militare anti-migranti erano state manifestate dal Consiglio straordinario dei Capi di Stato e di Governo Ue del 23 aprile 2015, convocato il giorno dopo l’ennesima strage di migranti nel Mediterraneo centrale. Qualcosa di simile era accaduto nell’ottobre 2013, quando il governo italiano, dopo il tragico naufragio di un’imbarcazione a largo di Lampedusa (366 i morti accertati), diede vita alla controversa e dispendiosa operazione Mare Nostrum. Allora l’intervento manu militari fu ipocritamente giustificato dalla necessità d’impedire altre stragi in mare. Due anni dopo, la crociata europea è sferrata invece, ufficialmente, contro le reti di trafficanti e scafisti in nord Africa, enfatizzando a dismisura un fenomeno, quello del traffico illegale di migranti nel Mediterraneo, che secondo lo stesso Robert Crepinko, direttore di Europol, vede operare in quest’area geografica 3.000 “trafficanti di essere umani” contro i 27.000 che “coprono le rotte balcaniche, quelle asiatiche ed africane”.
Ecco allora che a giugno ha preso il via la missione navale EUNAVFOR Med (denominata poi missione Sophia per ricordare la bambina somala nata a bordo di una nave militare giunta in soccorso di un’imbarcazione di migranti a largo delle coste libiche). Sono 14 i paesi europei che hanno aderito all’iniziativa (Italia, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Slovenia, Grecia, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Ungheria, Lituania, Paesi Bassi e Svezia). Il comando ha sede presso l’Operational Headquarter Ue di Centocelle-Roma, mentre alle operazioni contribuiscono fattivamente 1.318 uomini, la portaerei italiana “Cavour” (con a bordo più di 600 militari e uno staff multinazionale di 70 uomini provenienti da Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Romania e Spagna); la fregata tedesca “Schleswig-Holstein”; la fregata britannica “Richmond” con un elicottero Lynx, un drone da sorveglianza ScanEagle e un contingente dei Royal Marines; la rifornitrice tedesca “Werra”; la nave ausiliaria “Enterprise” e un elicottero AW101 MK2 Merlin britannici; un velivolo per la sorveglianza Falcon 50 della marina francese; un pattugliatore marittimo lussemburghese Seagull Merlin III. Da fine ottobre sono assegnati ad EUNAVFOR Med anche la fregata belga “Leopoldo I”, la fregata spagnola “Canarias”, il pattugliatore sloveno “Triglav” e un aereo per il pattugliamento marittimo P-3C “Orion” spagnolo. Le forze armate italiane contribuiscono alla missione Ue pure con due elicotteri, un sommergibile, due velivoli a pilotaggio remoto “Predator” MQ-1 e MQ-9 e con le risorse logistiche offerte dalle basi di Augusta, Sigonella e Pantelleria. Inoltre per le operazioni di sbarco dei migranti vengono periodicamente utilizzati i porti siciliani di Catania, Messina, Palermo, Porto Empedocle, Pozzallo, Lampedusa e Trapani e quello sardo di Cagliari.
Il piano d’intervento militare di EUNAVFOR Med – Sophia è stato approvato a Bruxelles il 18 maggio e dovrebbe articolarsi in tre fasi. La prima di esse si è concentrata nella raccolta dei dati d’intelligence sui traffici e nel pattugliamento di dieci aree a largo delle coste della Libia (quattro lungo la frontiera marittima di 12 miglia che separa le acque internazionali da quelle libiche, le altre sei in mare aperto). “La nuova forza navale deve procedere con l’identificazione e il monitoraggio dei network dei trafficanti attraverso la raccolta delle informazioni e la sorveglianza delle acque internazionali”, hanno dichiarato i ministri Ue. Alle unità navali è stato attribuito in particolare il compito di procedere all’identificazione dei migranti fermati (o soccorsi) in mare, raccogliendo tutti i dati personali (cognome, cognome da nubile, nomi ed eventuali pseudonimi o appellativi correnti; data e luogo di nascita, cittadinanza, sesso; luogo di residenza, professione e luogo in cui si trovano; dati relativi alle patenti di guida, ai documenti di identificazione e al passaporto), compreso il prelievo delle impronte digitali. “EUNAVFOR Med può trasmettere tali dati e i dati relativi alle imbarcazioni e alle attrezzature utilizzate da dette persone alle pertinenti autorità incaricate dell’applicazione della legge degli Stati membri e/o agli organismi competenti dell’Unione”, aggiunge la direttiva n. 778 approvata il 18 maggio 2015 dal Consiglio dei ministri degli esteri e della difesa dell’Unione europea. Secondo quanto dichiarato dall’ammiraglio Enrico Credendino, comandante della missione europea, i primi 108 giorni di attività di Sophia hanno consentito “l’arresto di 16 scafisti, la neutralizzazione di 16 imbarcazioni e il salvataggio di 3.076 migranti”. Alla data del 4 novembre, i migranti “assistiti” in mare, secondo il comando di EUNAVFOR Med, sarebbero stati già 5.000.
Puntare, colpire, affondare
Il 7 ottobre ha preso il via la seconda fase della missione navale: le unità e i reparti d’élite europei sono stati autorizzati a effettuare abbordaggi, perquisizioni, sequestri e dirottamenti in alto mare delle imbarcazioni che trasportano migranti. Le operazioni hanno ricevuto il beneplacito del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 2240/2015/S: oggi, pertanto, l’Unione europea e i singoli Stati possono intervenire contro i barconi che si trovano in acque internazionali al largo delle coste libiche “quando vi siano fondati motivi di credere che sono o saranno utilizzati per il traffico di migranti”. “Ulteriori azioni nei confronti delle navi ispezionate, compresa l’eliminazione – prosegue la risoluzione del Consiglio di sicurezza – saranno prese in conformità con il diritto internazionale e con la dovuta considerazione degli interessi dei terzi che hanno agito in buona fede”. Intervenendo in un’audizione presso il Comitato parlamentare di controllo e vigilanza su Schengen, Europol e immigrazione, la ministra della difesa Roberta Pinotti ha dichiarato che nelle prime tre settimane della seconda fase della missione Sophia “sono stati neutralizzati 21 natanti e arrestati 18 scafisti”.
Con la terza fase operativa di EUNAVFOR Med, l’Unione europea punta a gestire in prima persona vere e proprie operazioni belliche nel Mediterraneo centrale e in nord Africa. “Prevediamo che le operazioni vengano estese in acque territoriali libiche e possibilmente all’interno del paese stesso, ma ciò potrà essere fatto soltanto con una nuova risoluzione delle Nazioni unite che, realisticamente, potrà giungere dopo una richiesta ufficiale da parte delle autorità della Libia”, ha spiegato la ministra Pinotti. Se passasse la risoluzione auspicata da Roma e Bruxelles, le unità navali ed aeree europee potranno intercettare e abbordare le imbarcazioni di migranti e richiedenti asilo già in acque libiche e, finanche, di bombardarle in rada. L’escalation militare potrebbe preludere ad una vera e propria occupazione del territorio libico da parte dei paesi membri dell’Unione europea, su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ma, ancora una volta, sotto la guida degli Stati Uniti d’America e/o della Nato e a fianco dei principali partner nordafricani e mediorientali. Un epilogo della guerra ai migranti e alle migrazioni dagli esiti certamente infausti.
Intanto gli interventi Ue nel Mediterraneo sono coordinati direttamente con la Nato e con le forze armate statunitensi. Il Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, ha fatto sapere che la Nato è pronta a intervenire contro gli scafisti nordafricani, con la giustificazione che sui barconi dei migranti “potrebbero imbarcarsi anche terroristi o miliziani ISIS”. In realtà è perlomeno dal 2010 che il comando alleato di stanza in Campania (Aftsouth Napoli) condivide alcune delle informazioni raccolte dalle imbarcazioni e dai velivoli Nato con l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex e con l’Ufficio di polizia europeo Europol. Ed è perlomeno dal 2005-2006 che la Nato fornisce assistenza alle diverse agenzie nazionali anti-migranti dei paesi partner del Mediterraneo. Proprio in vista di una più stretta cooperazione Ue-Usa-Nato nel contrasto delle migrazioni, il 28 e 29 luglio scorso il comandante in capo di EUNAVFOR Med, Enrico Credendino, si è recato in visita a Washington per incontrare i responsabili del Dipartimento di Stato e della Difesa e quelli della US Coast Guard. La risposta del Pentagono è arrivata in tempi record per bocca del Capo di Stato maggiore degli Stati Uniti d’America, generale Martin Dempsey. “Dobbiamo affrontare unilateralmente con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire la crisi dei migranti per i prossimi 20 anni”, ha dichiarato Dempsey all’emittente televisiva ABC il 3 settembre. È stato però il primo ministro britannico David Cameron a spiegare le modalità con cui l’Occidente pensa d’intervenire per ostacolare i flussi migratori nel Mediterraneo. “Per risolvere il problema alla radice inizieremo una campagna di raid aerei contro le postazioni dell’ISIS e lanceremo un’azione di intelligence contro i trafficanti di esseri umani in Siria e in Iraq”, ha dichiarato il premier al Sunday Times. Autorevoli strateghi militari ritengono che un incremento dei bombardamenti contro il Califfato potrebbe aiutare a rallentare il flusso dei migranti, specie se affiancato da un dispositivo aeronavale che si faccia carico nel Mediterraneo dei cosiddetti ‘’respingimenti assistiti” (o dei “migranti riaccompagnati’’), espressione sullo stile del politicamente corretto come quella sulla “guerra umanitaria” di famigerata memoria.
Droni e Tritoni per un Mare Sicuro
La missione EUNAVFOR Med si è aggiunta ad un’altra operazione di “sorveglianza” nel canale di Sicilia, Mare Sicuro, avviata il 12 marzo 2015 dal solo governo italiano. Il compito ufficiale di Mare Sicuro è quello di svolgere attività di “presenza, sorveglianza e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale, protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme energetiche off-shore nazionali, e contrasto al traffico di esseri umani”. Attualmente in questa missione sono impegnati oltre 500 uomini e un dispositivo aeronavale composto da quattro navi d’altura con elicotteri imbarcati e team di pronto intervento di fucilieri ed incursori della Marina, aeromobili e velivoli a pilotaggio remoto e da ricognizione elettronica, i pattugliatori Breguet Atlantic in dotazione al 41° Stormo dell’Aeronautica di stanza a Sigonella. Per l’intercettamento e la sorveglianza dei natanti “sospetti” sono utilizzati periodicamente anche i sommergibili di base ad Augusta. “Ancorché Mare Sicuro sia un’operazione militare di sicurezza marittima, non espressamente mirata alla salvaguardia della vita umana in mare, le unità partecipanti possono essere chiamate ad intervenire in operazioni di ricerca e soccorso di naufraghi, in ottemperanza al già citato obbligo di soccorso previsto dalla vigente normativa internazionale”, ha dichiarato la ministra Pinotti durante un’audizione in Commissione difesa al Senato, il 21 luglio 2015. Sempre secondo il ministero della difesa, a fine ottobre, le unità navali di Mare Sicuro avevano “soccorso” 200 barconi e 461 gommoni ed erano stati arrestati 470 presunti scafisti.
Apprezzamento per quanto fatto dall’Italia nel campo dell’immigrazione e del contributo alla sicurezza nel Mediterraneo è stato espresso dal Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Ashton Carter, in occasione del suo incontro con la ministra Pinotti, il 6 ottobre scorso a Sigonella. Alla vigilia del viaggio di Carter in Italia, era stata la sua assistente alla sicurezza internazionale Elissa Sloatkin, a ribadire la “piena disponibilità” degli Stati Uniti ad aiutare il nostro paese nel condurre le operazioni sul fronte migrazione e della “stabilizzazione” mediterranea. “Gli asset che gli americani potrebbero fornire non sono specificati, ma è noto che i loro droni già partono dalla Sicilia per condurre missioni quotidiane di sorveglianza, la loro intelligence elettronica è senza pari, le unità della US Navy incrociano nel Mediterraneo e la base di Sigonella è attrezzata per qualunque emergenza”, ha scritto Paolo Mastrolilli sul quotidiano La Stampa.
A seguito della decisione del governo Renzi di porre termine alla missione Mare Nostrum, il 1° novembre 2014 Frontex ha dato vita all’Operazione Triton, prioritariamente con finalità di sorveglianza marittima e, solo sussidiariamente, di “salvataggio” dei migranti e richiedenti asilo a rischio di naufragio. Inizialmente Frontex aveva destinato alle attività di pattugliamento un budget mensile di 2,83 milioni di euro, 65 “agenti” e 12 mezzi militari, limitando l’area operativa alle acque territoriali italiane e solo parzialmente alle zone SAR (search and rescue) di Italia e Malta, per un raggio di appena 30 miglia nautiche. Nella primavera 2015 la Commissione europea ha però deciso di prorogare sino alla fine dell’anno il programma Triton, stanziando una dotazione aggiuntiva di 18 milioni di euro ed estendendo il raggio d’azione delle unità a 138 miglia nautiche a sud della Sicilia. Attualmente il dispositivo di Frontex nel Mediterraneo centrale conta su tre aerei, sei navi d’altura, dodici pattugliatori e due elicotteri. Inizialmente l’Italia ha contribuito a Triton con un pattugliatore d’altura della Marina militare e dopo con diverse unità veloci appartenenti alla Guardia di finanza e alla Capitaneria di porto. Bruxelles ha espresso l’intenzione di finanziare anche per il prossimo anno le operazioni aeronavali di Frontex e di rafforzare la missione anti-migranti Poseidon avviata da tempo nell’Egeo e in territorio greco (le previsioni di spesa per le due operazioni si assesterebbero nel 2016 intorno ai 45 milioni di euro).
Al recente meeting sul flusso di rifugiati lungo la rotta dei Balcani occidentali, presenti i Capi di stato e di governo di Albania, Austria, Bulgaria, Croazia, Germania, Grecia, Macedonia, Romania, Serbia, Slovenia e Ungheria, è stato proposto altresì un “significativo rafforzamento” dell’azione di Frontex nelle attività di identificazione, registrazione e prelievo delle impronte digitali dei migranti che giungono in Grecia; il “potenziamento” del supporto di Frontex alla frontiera tra Bulgaria e Turchia e ai checkpoint tra Croazia e Serbia; il trasferimento in Slovenia di un team di 400 poliziotti europei e di equipaggiamento “essenziale” per contribuire alle operazioni di vigilanza delle frontiere nazionali. Nella seduta del 9 settembre, il Consiglio d’Europa ha invece chiesto a Frontex di inviare in tempi brevi “squadre RABIT (Rapid Border Intervention Team)” ai confini più sensibili dell’Unione Europea, in particolare in Ungheria, Grecia e Italia. Le squadre di intervento rapido alle frontiere sono operative dal 2007 e intervengono su richiesta di uno Stato membro che si trovi ad affrontare “sollecitazioni urgenti ed eccezionali derivanti da un afflusso massiccio di immigrati clandestini”.
L’8 ottobre, a conclusione di un vertice in Lussemburgo, i ministri dell’interno dell’Unione europea hanno deciso di dar vita a una polizia di frontiera comune – marittima e terrestre – che sotto le insegne Ue aiuti le forze dell’ordine nazionali nella gestione dei flussi migratori. Anche stavolta sarà chiamata l’agenzia Frontex a predisporre e gestire il nuovo sistema di controllo “comune” sicuritario delle frontiere. Sei giorni prima del meeting dei ministri dell’interno Ue, Fontex aveva pubblicato sul proprio sito un bando per assumere 775 guardie di frontiera da inviare alle frontiere esterne dell’Unione, principalmente in Italia e Grecia, per concorrere alla registrazione e all’identificazione dei migranti provenienti da Libia e Turchia. Nello specifico, le nuove guardie assumeranno il ruolo di screeners (per individuare la nazionalità dei migranti in arrivo), debriefers (per raccogliere informazioni sulle attività delle reti di trafficanti) ed interpreti.
L’isola degli hotspot
La Sicilia è stata assunta a laboratorio sperimentale del nuovo corso delle politiche europee anti-migranti: dall’estate, in particolare, è stata istituita a Catania una centrale mediterranea dell’agenzia Frontex. “Questa base regionale costituirà un progetto pilota che potrà essere replicato anche in altri Stati membri e riguarderà i cosiddetti hotspot, i centri proposti dalla Commissione dell’Unione europea nella sua Agenda per l’immigrazione dove concentrare gli sbarchi dei migranti e sottoporre questi ultimi a un primo screening”, ha dichiarato il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri. Bruxelles ha già identificato come primi hotspot i porti di Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani e Lampedusa, a cui si aggiungeranno entro la fine dell’anno Augusta e Taranto. “In ciascuno di questi Hotspots vi sono strutture di prima accoglienza che possono ospitare complessivamente circa 1.500 persone ai fini dell’identificazione, della registrazione e del rilevamento delle impronte digitali dei migranti in arrivo”, riferisce il portavoce della Commissione europea. “Il metodo basato sui Hotspots contribuirà anche all’attuazione dei meccanismi temporanei di ricollocazione proposti dalla Commissione europea il 27 maggio e il 9 settembre: le persone che hanno evidente bisogno di protezione internazionale saranno individuate negli Stati membri in prima linea e trasferite verso altri Stati membri dell’UE nei quali sarà trattata la loro domanda d’asilo”. Per tutti gli altri, ovviamente, non resteranno che i rimpatri forzati e le deportazioni.
Si profila così, oltre ad un rafforzamento dei dispositivi militari in Sicilia e nelle isole minori, l’ampliamento del numero e delle azioni di confinamento forzato in veri e propri hub detentivi dei potenziali richiedenti asilo e di tutti i migranti, replicando il modello criminale e criminogeno del CARA di Mineo. In una lettera inviata il 7 settembre al direttore generale Ue per gli Affari interni e immigrazione Matthias Ruete, il capo della Polizia Alessandro Pansa ha ammesso che le autorità di pubblica sicurezza stanno studiando nuove norme per allungare i tempi di trattenimento nei centri di identificazione fino a 7 giorni e per imporre il rilevamento delle impronte digitali a tutti, pena il trattenimento fino a 30 giorni per coloro che rifiutino di sottoporsi a questa aberrante pratica di controllo e schedatura poliziesca.
Il ministero della difesa ha pubblicato intanto un primo elenco di caserme dismesse o in via di dismissione che potrebbero essere convertite a centri di identificazione-reclusione. “La Difesa collabora strettamente con le altre articolazioni dello Stato rendendo disponibili infrastrutture e siti militari non più utilizzati a fini istituzionali per l’accoglienza dei migranti”, ha dichiarato la ministra Pinotti. Tra gli immobili già individuati ci sono cinque edifici in Friuli per “ospitare” complessivamente 300 persone (le caserme Cavarzerani, Prepotto e Fusine in provincia di Udine; la caserma di Muggia a Trieste e quella di Cordovado in provincia di Pordenone); la (ex) caserma di Montichiari in provincia di Brescia per altri 300 cittadini stranieri; la caserma dell’esercito di Civitavecchia per 500 “ospiti” e quella dell’Aeronautica militare presso l’aeroscalo “G. Allegri” di Padova, già sede fino al 2009 della 1^ Brigata Aerea ed ora in carico al 2° Reparto Manutenzione Missili. In Sicilia si pensa invece a realizzare un hub per 800 persone nella ex caserma “Gasparro” di Bisconte, Messina, dove oggi, negli unici tre stanzoni non dichiarati inagibili, vivono in condizioni disumane oltre duecento richiedenti asilo. Militarizzazioni che si sommano alle già asfissianti militarizzazioni imposte alle popolazioni che risiedono in prossimità delle grandi basi di morte, delle stazioni radar, dei CIE e dei CARA sorti come funghi in tutto il territorio nazionale.
“Dei 6.600 militari impegnati nell’operazione Strade Sicure – ammonisce il ministero della difesa – 870 sono impegnati in Italia nella sorveglianza di 14 Centri che ospitano i rifugiati e richiedenti asilo, così come gli stranieri in attesa di identificazione”. E la guerra continua…
Relazione al Convegno “Pace e Diritti nel Mediterraneo. Conflitti e resistenze nelle politiche europee, negli ordinamenti interni e nelle prassi operative”, promosso da Primalepersone e ADIF (Associazione Diritti e frontiere) con la collaborazione dell’Università degli Studi di Palermo e del Comune di Palermo, 12 e 13 novembre 2015.
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