Ogni giorno cresce la nostra consapevolezza di vivere in una situazione di guerra – interna ed esterna – con delle principali aree geografiche di fronti caldi e in espansione (Ucraina, Medio-Oriente, Africa), trainati dalla crisi economica ed egemonica che vede contrapposti i blocchi governativi USA-UE da un lato e russo-cinese dall’altro.
Gli effetti di questi scenari non si vedono solo nel pesante impatto ambientale e nelle vite perse nei fronti di guerra aperti. La guerra è nei nostri territori: ne sono esempio la logistica, le intelligenze artificiali, i sistemi algoritmici e le economie europee e nazionali ormai tutte rivolte e dedicate al riarmo.
I debiti nazionali in crescita dei paesi UE, con alcune economie da sempre considerate solide (come quella tedesca) ormai in recessione. Una situazione che da un lato chiama politiche di austerità per rientrare negli stretti ranghi UE, dall’altra adopera una certa flessibilità per riuscire a rispondere alla NATO e alle pressanti richieste di riarmo e di finanziamento alla difesa. Mentre continuano incessanti gli aiuti militari europei rivolti al fronte ucraino, Italia, Francia, Spagna, Germania e Polonia per la prima volta in maniera ufficiale sono a favore di obbligazioni europee per finanziare l’industria militare e potenziare la partecipazione europea alla corsa agli armamenti in atto.
A livello italiano gli effetti di queste decisioni sono scritte nero su bianco sulla finanziaria adesso in discussione e sulle previsioni dei prossimi anni. Mentre la Meloni dichiara che il governo si impegna a non far pagare ai cittadini e alle cittadine gli esiti delle scelte politiche volte al riarmo, i numeri dicono una realtà diversa: se da un lato si prevede un taglio di 12 miliardi di euro per la spesa sociale (sanità, istruzione, ricerca pubblica), dall’altro si prevede un investimento di 32 miliardi per il settore della difesa, di cui 13 dedicati alla produzione di armi. Un vero e proprio bilancio di guerra, frutto delle scelte politiche di una classe dirigente europea e italiana che preferisce affamare la gente per investire in bombe.
Questa economia di guerra passa anche dalla logistica, dai trasporti, dalla ricerca e dalla formazione.
Non troppi mesi fa il Consiglio Europeo si è impegnato a rafforzare i rapporti con la NATO e a rafforzare il piano di mobilità militare entro il 2026. Questo piano prevede lo sviluppo di sistemi di trasporto multimodali, dando priorità alle infrastrutture dual-use (impiegati per scopi civili e militari), permettendo alle forze armate di usarle in maniera prioritaria in “caso di necessità”. Il tutto si accompagna con la riconosciuta necessità di avviare una campagna propagandistica pubblica sull’importanza della mobilità militare a livello europeo per garantire la sicurezza. In Italia questo quadro europeo agghiacciante si è tradotto nell’accordo firmato ad aprile 2024 tra Leonardo SPA ed RFI, una collaborazione per realizzare un progetto di mobilità militare volto ad aumentare le capacità infrastrutturali esistenti per assicurare lo spostamento di risorse militari dentro e fuori l’Europa, attraverso l’utilizzo di infrastrutture dual-use. Si punta quindi a “migliorare” la capacità delle infrastrutture dei trasporti in Italia in funzione delle esigenze militari.
Questo quadro si lega anche all’ utilizzo duale di porti non militari come quelli di Genova, Livorno, Salerno, Napoli, Milazzo e Gioia Tauro, che vedono un transito in entrata o in uscita di navi cariche di armi, munizioni e carburanti, ad alimentare fronti di guerra aperti. Cruciale in questi passaggi è il ruolo dei giganti della logistica, tra cui l’italiana MSC (la più grande flotta di navi container del mondo) che trasporta sistematicamente armi, anche verso Israele. Passaggi che sono stati denunciati e bloccati dagli stessi portuali dei CALP e dei GAP a cui si sono aggiunti i sindacati di base della logistica e i Ferrovieri contro la Guerra in ambito ferroviario.
L’uso duale non imperversa solo in ambito logistico e infrastrutturale. A gennaio 2024 la commissione europea è stata chiara: l’Europa deve investire di più nello sviluppo tecnologico militare, e per fare questo deve investire di più in progetti dual use. Prospettiva pienamente integrata dal nostro ministero della Difesa che, nel piano programmatico 2024-2026 mette tra i punti principali gli investimenti in ambito di ricerca a scopi militari, appunto tramite progetti dual use: soldi pubblici tolti ai Fondi per i Finanziamenti Ordinari degli Atenei, per la ricerca ad uso esclusivamente civile, stornati per la ricerca in ambito militare.
Questa tendenza alla guerra passa anche dalle scuole, diventate bacino di reclutamento dell’esercito. Non si contano più le iniziative organizzate con le forze armate dentro le scuole (mostre, gite, seminari), come ormai non si contano più i patti che prevedono lo svolgimento delle ore del PCTO nelle caserme o le ore mascherate di “educazione alla legalità” tenute dalle forze armate che impartiscono addestramento e attitudine all’obbedienza nelle classi; o anche basta pensare alle direttive per le ore di educazione civica da dedicare allo studio dell’agenda digitale europea, volta al dispiegamento del programma Europa digitale (regolamento UE 2021/694) e all’implementazione delle politiche di ciberdifesa dell’UE e di un piano d’azione sulla mobilità militare 2.0.
In questo panorama chi ne gode di più è il complesso militare industriale, con la Leonardo apri fila, che approfitta di (e fa pressione per ottenere) questa pioggia di finanziamenti pubblici per ingrassare le proprie casse, esportando i propri prodotti. Anche un genocidio diventa un grande affare e il governo certamente non si tira indietro. Poche settimane dopo le dichiarazioni del governo che assicurava che l’Italia non stava in nessun modo supportando Israele militarmente (Tajani e Crosetto su tutti), i dati forniti dall’agenzia delle dogane li hanno smentiti. Tra il 2023 e il 2024, dal 7 ottobre 2023, l’Italia ha esportato in Israele l’equivalente di 2 milioni di euro in armi e munizioni da guerra. Leonardo è l’azienda che ha rifornito le corvette israeliane che sparano dal mare sulla Striscia di Gaza. Solo nell’ultimo semestre abbiamo acquistato circa 30 milioni di armi da Israele. Tutto questo dentro un quadro di collaborazione industriale, commerciale e tecnologica privilegiata, che dura da circa vent’anni, per cui il sostegno economico e politico ad Israele da parte dell’Italia non è mai mancato e non vacilla nemmeno davanti al genocidio in corso.
Tutto questo non è casuale. È frutto di scelte politiche precise. Scelte politiche governative volte al rafforzamento del sistema patriarcale, che vuole la sopraffazione e il dominio sulle donne, sugli uomini, su minori, su personalità trans e ogni minoranza e sulla natura tutta; laddove le figure socializzate come maschili sono rappresentate come vuoti orizzonti machisti di perenni ansie da prestazioni e quelle femminili vengono relegate a meri strumenti di lavoro domestico e di cura degli altri, al contempo impossibilitate ad aver cura di sé. I servizi forniti dai nostri consultori sono sempre più inadeguati e presi d’assalto da un numero crescente di obiettori, in un contesto generale caratterizzato da una sanità al collasso (sono ormai quasi 5 milioni le persone che in Italia rinunciano a curarsi perché non si possono permettere le spese mediche private a fronte di un SSN non in grado di rispondere a tutte le richieste). Più del 90% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico in un paese colpito dagli effetti di eventi climatici estremi (ondate di calore, siccità, alluvioni), eppure si preferisce in grandi opere inutili o a un utilizzo del territorio che rispecchiano solo gli interessi legati all’estrattivismo – idrico, fossile e non solo – e alla connessa devastazione dei territori mediante l’edilizia delle opere faraoniche e il conseguente traffico illecito di rifiuti. Centrale è il ruolo delle grosse imprese come WeBuild. In questo quadro, dare altri 32 miliardi al settore militare è una scelta politica secondo cui alcuni interessi valgono di più, mentre la vita e le persone valgono meno. Da un lato i signori della guerra e i loro vassalli; dall’altro lavoratori e lavoratrici con sempre meno garanzie, disoccupati e disoccupate, con sempre meno servizi e supporto, su cui pende la scure di un nuovo decreto sicurezza (DDL 1660) che non fa altro che limitare ulteriormente i possibili dissensi e gli spazi di protesta.
Riteniamo che la vera opposizione alla guerra debba arrivare proprio da chi, già oggi, sta pagando un prezzo troppo alto per le attuali politiche guerrafondaie. Crediamo che l’unico modo per sconfiggere lo sconforto e la paura sia organizzarci, riappropriandoci della speranza e della rabbia. La rabbia collettiva contro il genocidio palestinese e i bombardamenti e le torture nelle regioni del Kurdistan; la rabbia per condizioni materiali sempre peggiori e per questa nuova ondata di tagli alla spesa sociale che accrescono sempre più la filiera bellica. Avere chiaro il meccanismo che alimenta la guerra, gli interessi che lo compongono, è un passo necessario per riconoscere i nemici dentro casa nostra e vicini a noi, capire in che modo intervenire per bloccare questo meccanismo mortifero, affinando le alleanze e le strategie. Sentiamo anche noi che cresce il disfattismo e la solidarietà a chi diserta e a chi si oppone alla guerra verso cui i governi ci stanno trascinando: i popoli sanno bene che la guerra imperialista non è mai nel loro interesse, ma solo per gli interessi della classe che la conduce.
Ispirate dalla resistenza palestinese e da quella curda, continuiamo la nostra lotta contro l’occupazione militare. Sappiamo che basi come il MUOS e Sigonella sono direttamente coinvolte sul fronte ucraino, palestinese e libanese. Non vogliamo esserne complici. Così come non vogliamo essere complici delle spire violente del caporalato e di chi brucia la terra e sfrutta le vittime della tratta migrante, ma vogliamo favorire processi rivoluzionari di economie alternative e di liberazione dei territori.
Con questo spirito, vi invitiamo al campeggio di lotta presso il presidio No Muos, che si terrà dal 29 dicembre 2024 al 3 gennaio 2025, per continuare a contrastare la guerra e parlare delle prospettive presenti e future, contro l’omertà e le oppressioni e per l’autodeterminazione popolare.
Donna Vita libertà! Jin Jiyan Azadí!
Viva l’intifada e la resistenza del popolo palestinese
Dalla parte di chi diserta e sabota le guerre
No Muos fino alla Vittoria!
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